Correva l’anno 1986, quando Jean-Jacques Annaud portò sul grande schermo Il Nome della Rosa, capolavoro letterario edito cinque anni prima da un “certo” Umberto Eco, affidando ad un grandissimo Sean Connery e al giovane talento di Christian Slater il compito di riprodurre dietro alla telecamera la magnificenza delle pagine romanzesche. A 33 anni di distanza, era arrivato il momento di ripescarlo e riprodurlo sotto forma di prodotto televisivo, una miniserie di quattro episodi su cui brillavano i nomi hollywoodiani di John Turturro, Rupert Everett e Michael Emerson, ma anche la maestria tricolore dei nostri Fabrizio Bentivoglio, Alessio Boni e Greta Scarano, un impasto multi-produzione (italo-tedesca) e multi-nazionale amalgamato da Giacomo Battiato. Ecco cosa è uscito dal forno.
Una Disputa bagnata di scarlatto
Anno 1327. Il frate francescano Guglielmo da Baskerville, ex inquisitore redento, raggiunge una celebre abbazia sulle Alpi italiane insieme al suo nuovo e giovane aiutante, protetto ed iniziato Adso da Melk. Lo scopo di tale visita è quello di una Disputa con gli inviati papali per discutere sulle predicazioni di povertà che l’ordine francescano evangelizza e desidererebbe anche per le alte cariche cristiane. Al loro arrivo, però, i due francescani si troveranno di fronte ad una strana serie di omicidi che sembrano collegati con la criptica e labirintica biblioteca dell’abbazia e i suoi cartacei contenuti. La maestria e l’astuzia investigativa di Guglielmo si troveranno a fare i conti con un rompicapo davvero occulto e nebbioso.
Sulla trama de Il Nome della Rosa c’è da dire davvero poco, e per fortuna la serie diretta da Giacomo Battiato ne rispetta religiosamente i passaggi chiave e i tratti principali. Eravamo poi sicuri sull’ottima interpretazione di uno scintillante John Turturro che, svestendo i panni di un trasandato avvocato in The Night Of, indossa il saio lercio di Guglielmo messo dinanzi ad un enigmatico caso pluriomicida. Il personaggio, per quanto ben costruito e ricalcato dall’originale, ci è apparso però un po’ esagerato, una versione antica di Sherlock Holmes con più fede nel divino, una mente comunque molto aperta e progressista, e distributore di saggezza gratuita. Bene anche il suo compagno di viaggio, l’Adso incarnato da Damian Hardung a cui la telecamera regala approfondimenti e sequenze romantiche, in una continua guerra tra devozione alla causa religiosa e il peccato nascosto nelle carni tentatrici ma sincere di una bellissima ragazza che non parla nemmeno la sua lingua, ma con cui di certo comunica tramite il linguaggio universale dell’amore.
Il resto del cast è di primo livello, specie quando nelle vesti dell’abate troviamo lo sguardo ipnotico di Michael Emerson (il celebre Ben di Lost), quello glaciale di Richard Sammel (che tutti ricordiamo nei panni di Thomas Eichorst nella serie tv di The Strain), e quello talentuosissimo ed esperto del sempre grandioso Rupert Everett nelle vesti di Bernardo Gui, ovverosia la nemesi di Guglielmo. Lode anche alla sezione italiana del cast, con un espressivo Fabrizio Bentivoglio nel saio di Remigio, un eccentrico Roberto Herlitzka (Alinardo) e le giovani ma buonissime interpretazioni di Alessio Boni (Dolcino), Greta Scarano (Margherita/Anna) e Antonia Fotaras (la ragazza occitana del bosco).
Cosa non convince
Purtroppo, a differenza della recentissima La Verità sul Caso Harry Quebert, altra serie tv che trae radici dall’omonimo romanzo e che, guarda un po’, è stata diretta proprio da quel Jean-Jacques Annaud direttore d’orchestra de Il Nome della Rosa versione cinematografica, Battiato e i suoi sceneggiatori – tra cui anche Turturro – riempiono il copione di parole, bei discorsi e chiacchiere, lasciando che la parte thriller e quella storica imbarchi acque da falle e limiti evidenti.
Gli studenti del corso di Storia della Critica dell’Arte, insieme alla loro professoressa Alessandra Galizzi Kroegel, dell’Università di Trento, hanno portato alla luce dei strafalcioni storici considerevoli e, qualcuno, anche imperdonabile. Non stiamo certo ad elencarvi quali essi siano, ma vi basti sapere che troppo spesso la scenografia ha installato sul set elementi, più o meno evidenti (alcuni anche in primo piano), che non centrano davvero nulla con quel periodo storico e che, addirittura, sono risalenti a secoli successivi. Questo purtroppo denota una scarsissima attenzione in fase di allestimento, uno studio assai superficiale del periodo storico in questione ed una distratta professionalità dovuta forse alla produzione italo-tedesca. Badate bene, ad un occhio profano, certi particolari sfuggiranno e non saranno di disturbo, ma queste imperfezioni fanno il palio con quelle di natura sceneggiante, in cui la tensione difficilmente viene a metterci i brividi sulla pelle, annacquata da troppe parole, frutto forse della scelta azzardata di sviluppare solo quattro episodi con una lunghezza reiterata e spezzettati da piazzole di pausa pubblicitaria di cui la Rai ha ampiamente abusato togliendo enfasi e coinvolgimento alle immagini e allo spettatore.
Detto questo, Il Nome della Rosa rimane comunque un prodotto affascinante, perché figlio di un capolavoro letterario fuori dai tempi, che ha accolto la destrezza recitativa di un ottimo cast e che, tutto sommato, si lascia guardare pur non incantandoci e stregandoci dinanzi allo schermo.
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Buona Visione!