La tranquillità di Big Bear, una piccola cittadina canadese, è ormai stata scossa dalle vicende di Jim Worth; dal suo passato da criminale, da parassita, da assassino. Il primo atto ci lasciò il corpo raggiunto da una bocca di fuoco dello sceriffo inglese disperso tra gli aceri e la neve nord americana, vittima di una ridondante vendetta che, come un cerchio, prima ringhia sull’omicida di suo figlio, poi gli si ritorce contro sotto i panni rabbiosi dell’altra figlia. Chi la fa l’aspetti, sembra essere proprio questo il tema del giorno in casa Tin Star, ma molte sono le vicende che vedremo scorrere in questi dieci episodi, così come sono ancora tanti i segreti che si celano dietro la genuinità folle del protagonista.
Un covo di santi
Per sfuggire alle grinfie paterne, Anna si fa adottare da una famiglia amish nei pressi di Big Bear; un posto tranquillo, una base sicura con recinta fatte di fede, religione, lavoro e rispetto. L’ira di Jim però, non tanto inquieto per esser stato sparato dalla sua stessa figlia quanto deciso a rivolerla indietro, crea scompiglio in questa docile comunità capeggiata dal pastore Johan Nickel, nonché colui a dare riparo, insieme alla sua famiglia, alla giovane Anna. Purtroppo, la purezza di Johan non è poi così immacolata, visto che un terribile segreto ed atti altrettanto indicibili sono nascosti nella sua lacerata e stanca anima. Di contorno, Elizabeth è stata licenziata dalla North Stream Oil, appiedata da tutti tranne che da Angela, ma ciò che troveranno nel fondo di un pozzo metterà le due donne nei guai. Su tutto questo, il passato di Jim è ancor più oscuro di quello che potevamo immaginare, qualcosa di atroce sta arrivando!
Il covo di santi di cui sopra, come vedete, non è poi il posto beatificato che ci si aspetta. L’essenza di Jim, che ormai ha svestito i panni dello sceriffo e può quindi dar libero sfogo alla sua vera natura, non fa altro che mettere in luce i peccati e gli errori di persone che sono rimaste impantanate nella parte malvagia della vita. Tim Roth, come recitato in testa alla recensione, è il Re assoluto dello schermo, con le sue facce, la sua gestualità, la sua schiettezza e la rude scorza che lo contorna. L’attore britannico è perfetto per il ruolo di un uomo un po’ folle, a tratti crudele, ma anche intelligente e fondamentalmente giusto e sentenzioso. Bene anche il resto del cast, che in questa seconda stagione si impreziosisce della presenza di John Lynch, attore, regista e scrittore irlandese che con il suo volto pare ritagliato perfettamente per il ruolo di Johan.
La trama e le sequenze saltellano da un protagonista all’altro, da una situazione all’altra, lasciando che alla fine si intreccino, si risolvano (nel bene e nel male), si fondano per un epilogo che lascia spazio ad una terza stagione.
Il senso della responsabilità
Non possiamo dirvi perché, nella sua follia e nel suo modo violento di fare, il personaggio di Jim sia davvero l’emblema della responsabilità; ma possiamo spifferarvelo senza incorrere in spoiler alcuni perché quanto visto nella seconda stagione di Tin Star ci racconta di un uomo che ne ha viste tante, che ha combattuto mille battaglia, che si è confrontato faccia a faccia con la morte e il dolore della perdita, ma non è ancora stanco di lottare per difendere ciò che ama.
Infondo, questo è il tema su cui ruota l’intero secondo atto, e viene infiocchettato per bene dal sonoro (specie nei due episodi finali) quando, correndo verso il fotofinish ci fa emozionare attraverso un clima sensoriale fatto di immagini a rallentatore che scrutano i volti dei protagonisti nel bel mezzo di un lutto e poi di una guerriglia spartana. La morte aleggia sopra alle teste degli occupanti della telecamera, una morte arrivata e quella che sta arrivando, immortalando così attimi suggestivi e coinvolgenti, scattando il ritratto di un mondo crudele, cinico, spietato, di quelli che non perdonano, non dimenticano e non risparmiano nessuno.
Anche la sceneggiatura di questa seconda stagione corre sui binari normalizzati di quanto visto nel primo capitolo, senza troppi acuti. I personaggi, quando chiamati alla profondità, sputano frasi in pieno stile noir, di quelle veritiere, un po’ raschiate, che vengono più dallo stomaco che dal cuore o dal cervello. La scenografia passa dalla neve che si sta sciogliendo pian piano, al clima soleggiato che riecheggia all’interno di questa piccola congrega amish, patria quasi per intero dei fatti raccontati. Di contorno, l’epilogo delle storie rimaste a metà nella prima stagione, più per allungare il brodo che per altro.
Senza brillare particolarmente, Tin Star – secondo atto -, ha qualcosa in meno del predecessore, ma raggiunge e a tratti supera la sufficienza; riesce ad appassionandoci senza stregarci, ma comunque invogliandoci a scoprire come andrà a finire.
Leggi anche: Escape Room (2019) – Recensione
Lascia un commento e seguici su Facebook, Twitter e Google +.
Buona Visione!