Il mondo dell’horror a basso costo, negli ultimi anni, ha riscosso notevoli successi e sfornato pellicole di ottimo livello (chiedere a Blumhouse). Tuttavia, il nuovo Escape Room firmato dalla regia di Adam Robitel, che di milioni ne ha erogati soltanto 9, è un po’ diverso da quanto ci si aspettava, e forse per questo non riesce a centrare il bersaglio, ma solo a divertirci un po’. I precedenti esperimenti cinematografici con l’escape room e i le sue radici claustrofobiche ed enigmatiche alla Saw, vengono solo sfiorate da questa pellicola, che tenta disperatamente di imprimere un’impronta originale, ma che in realtà si perde nella superficialità fatua di una narrazione quasi inesistente, di uno splatter assolutamente assente e di una messaggistica involontaria e davvero soggettiva.
Chi sopravvivrà?
Sei persone, apparentemente slegate fra loro, ricevono per posta un criptico pacchetto contenente un puzzle a forma di cubo. Una volta risolto il piccolo enigma, ne esce un invito all’escape room della Minos, ovverosia stanze sigillate da cui si può evadere soltanto dipanando un arcano. Il detenuto fuggitivo riceverà un premio di 10mila dollari. I protagonisti del gioco, però, non sanno di essere finiti in una trappola, da cui solo uno può uscirne, solo uno può uscirne vivo! Perché proprio loro le prede di questo macabro intrattenimento? Cosa hanno in comune?
Il fenomeno delle escape room sta spopolando in tutto il mondo, tanto da avere a disposizione stanze sempre più grandi, enigmi sempre più complessi, diversi livelli di difficoltà ed un business clamoroso alle spalle. Adam Robitel, direttore d’orchestra di questa pellicola dell’orrore, aveva dichiarato di non essere mai stato in un’escape room, ma quantomeno di essersi informato approfonditamente a riguardo. I problemi del film, infatti, non nascono dall’evidente disinformazione su questo mondo ludico, ma sulla testardaggine di esprimere un film che si discostasse dai cliché del genere.
È evidente, fin dal titolo, che una pellicola simile doveva necessariamente assomigliare a Saw, quantomeno nel suscitare claustrofobia e tensione nello spettatore; ma aveva il dovere di migliorare l’Escape Room del 2017, incarnandone magari la natura splatter e recapitando nelle motivazioni della reclusione un messaggio più importante e saliente. Robitel, insieme ai suoi sceneggiatori, non fa niente di tutto questo! La pellicola evita la fisionomia splatter affinché tutti i giovani possano usufruire della visione; ma se questo potrebbe anche essere un punto a favore, certo non lo è glissare quasi completamente sulla caratterizzazione dei personaggi e sulle motivazioni per le quali si trovano rinchiusi in quell’inferno. Non fraintendete, il film spiegherà, anche attraverso i flashback e nelle fasi finali, le ragioni di tale confinamento e di tali punizioni, ma la banalità e la superficialità di quest’ultime sono ampiamente deludenti.
Un gioco diverso da quanto ci si aspettava
Come già accennato, il film non viene concepito per essere uno splatter, di conseguenza ci si sarebbe aspettati enigmi che spremessero un po’ di più le capacità cognitive ed intellettive dei protagonisti. Invece, i sei partecipanti devono affrontare prove soprattutto fisiche, prive di emotività e ragioni etiche, prive di connessione metaforica, allentando così la tensione nello spettatore, non permettendogli di partecipare attivamente e concretamente all’inganno e ai puzzle.
Nel gruppo troviamo un maniaco dell’escape room, una reduce di guerra con cicatrici non solo fisiche, un ragazzo che proprio non capisce come mai sia finito lì, un genio della fisica asociale, un camionista spaventato dalla sua stessa immaginazione, un broker e il suo egoismo. Il mix di personaggi non sarebbe neanche male, se non fosse che i dialoghi sono ridotti all’osso e che le loro vite siano, come già detto, soltanto sbirciate attraverso flashback di dubbio interesse. Il cast fa il massimo, cioè il minimo indispensabile, proprio perché la sceneggiatura non tenta nemmeno di premiarli, e tra loro è possibile distinguere perfino Deborah Ann Woll, la celebre Karen Page di Daredevil, relegata però ad un ruolo minore, specie perché il film decide di presentare, pre-gioco, soltanto le vite di tre concorrenti, facendo intuire immediatamente la fine che verrà riservata ai restanti tre sconosciuti. Onestamente, dal regista di Insidious: L’Ultima Chiave ci si aspettava di più…
Escape Room non riesce mai ad inviare un messaggio cristallino che, per quanto estremo e psicopatico che sia, è stato sempre ben evidenziato in pellicole come Saw. L’unica interpretazione che siamo riusciti a dargli, che rimane però del tutto soggettiva e personale, è quella della metafora: la vita e la frenesia attuale delle persone sono proprio come un’escape room, un contesto in cui ci infiliamo volontariamente, una corsa contro il tempo per non finire bloccati, un susseguirsi di stanze che sfioriamo ma raramente ci soffermiamo ad assaporare; ed in tutto questo c’è un potente che ci osserva dall’alto, godendo e gongolando sui nostri affanni, sui nostri tentativi di guadagnarci la giornata ed andare avanti. Il cervello è l’unica arma a nostra disposizione, in un tempo in cui invece i neuroni vengono perfino snobbati, in un mondo dove l’intelligenza è fuori moda.
Leggi anche: The Order – Recensione
Lascia un commento e seguici su Facebook, Twitter e Google +.
Buona Visione!