Volteggiavano intorno al nuovo show Netflix ideato da Steve Blackman aspettative molto pretenziose. The Umbrella Academy, la serie tv ispirata all’omonimo fumetto del cantante dei My Chemical Romance Gerard Way, non è solo una storia di supereroi, ma soprattutto vicende di famiglia; una famiglia divisa dal lutto e dalla tirannia educatrice di un padre spietato ma anche saggio, riunita intorno alle ceneri di un uomo, e decisa a scongiurare quelle del mondo intero. Così come Hill House non era soltanto una storia paranormale, ma il racconto profondo ed ipnotico di personaggi carismatici, così anche lo schema di The Umbrella Academy si impagina, senza toccare le profondità abissali e qualitative del primo, ma installandosi comunque nel menù dei prodotti di valore.
Una famiglia di eroi
Nel 1989, nello stesso giorno, nascono 43 bambini da donne che al mattino non erano incinte, mentre la sera si sono ritrovate madri. Quest’anomalia viene subito notata dall’eccentrico miliardario Sir Reginald Hargreeves che riesce ad adottarne 7. I 7 fratelli, 5 maschi e 2 femmine, sono speciali, ognuno in possesso di un potere differente; ma combinati danno vita alla prima classe dell’Umbrella Academy, una sorta di scuola/squadra diretta dal Sign. Hargreeves ed interpretata dai giovani supereroi, destinati a salvare il mondo. Per motivi diversi, crescendo, la squadra si scioglie ed ognuno dei ragazzi va per la sua strada, fin quando la morte del papà miliardario non li riunirà di nuovo tutti sotto lo stesso tetto, con una gatta da pelare che va ben oltre il semplice lutto.
Immediatamente, entrando nelle mura legnose della dimora Hargrevees, si nota uno stile retrò, un mondo rimasto forse agli anni ’80, mescolato alla fantascienza, al fantasy, con sfumature d’azione caratteristiche ma non affollate; si notano i protagonisti di questa vicenda, semplici ragazzi prelevati in età infantile da genitori che non attendevano di essere tali, chiamati a divenire degli eroi fin da piccoli, ognuno con i propri poteri, ma anche con i propri fantasmi, i propri ricordi più o meno piacevoli, con i propri problemi personali. Luther è grosso, muscoloso e decisamente forte, Klaus può sbirciare l’oltretomba e chiacchierare con i morti (compreso suo fratello Ben, deceduto violentemente troppo giovane e capace di espellere tentacoli dal proprio addome), Allison fa coercizione attraverso il suono della sua voce (un po’ la Killgrave della situazione), Diego è uno strepitoso lanciatore di coltelli che può indirizzare ovunque e farli curvare nell’aria come dei missili intelligenti, Numero 5 squarcia lo spazio/temporale, ed infine Vanya… beh lei non sembra mai avere avuto dei poteri.
È proprio su quest’ultima sorella che si concentrano le attenzioni e i messaggi della serie. L’emarginazione e l’alienazione in cui è sempre stata isolata e confinata la docile Vanya sembrano raccontare di una famiglia unita e coesa come contraltare. In realtà le spaccature, i dissapori, la rabbia e il dolore sono più vividi che mai in casa Hargreeves. Sir Reginald, a modo suo, ha forse voluto bene a questi sette figli, ma di certo ha sempre stentato a dimostrarlo. Noiosi e stancanti allenamenti, un affetto mai cristallino, una mamma robot, un maggiordomo primate dolce ma al servizio prima di tutto del padrone; e poi amori incapaci ed impossibilitati a sbocciare; ma soprattutto segreti, tremendi segreti che galleggiano sullo sfondo di un lutto, quello di Ben, che non doveva verificarsi, e sulla sparizione di Numero 5, perso nell’abisso spazio/temporale e bloccato in un futuro apocalittico. Tutt’altro che una famiglia felice!
GIÙ LA MASCHERA!
Quando leggemmo il titolo della serie, ignoranti del fumetto, ci vennero subito in mente gli zombi dell’Umbrella Corporation – recentemente di nuovo su console con Resident Evil 2 -, ma di certo qui di virus non si parla. Il virus, semmai, è da ricercare in questi uomini e in queste donne, ognuno contaminato da un patogeno diverso: c’è chi ha sempre creduto nella squadra e non ha mai abbandonato la barca, ma anche per questo odia i fratelli che se ne sono andati; chi è schiavo della droga e della propria patetica esistenza; chi per gli altri ha sacrificato la propria vita personale e sentimentale, cocciuto e testardo come la groppa di una tartaruga; chi non più parlare con la propria figlia; chi ama la femminilità di un manichino perché ha sofferto di troppa ed indesiderata solitudine; ed infine chi, come Vanya, non si è mai sentita parte di qualcosa.
Come accennato in testa alla recensione, The Umbrella Academy non è solo la storia di sette supereroi e di una rincorsa tra viaggi temporali e universi paralleli per salvare il mondo, ma è soprattutto la storia di persone che si amano e si odiano, ma soprattutto si amano e che, saranno chiamati a riformare la squadra per un bene che va oltre l’individuale. Sacrificio, connessione, resistenza, perdono, sono tutte pedine che i sette giocatori dovranno posare sulla scacchiera per vincere la partita.
Il vestito messo indosso a questa serie, poi, è di quelli caratteristici. Al di là delle differenze culturali, sessuali e caratteriali che ognuno di loro mostra (differenze ben strutturate e assortite tra l’altro), il vero fiocco è quello scenografico e musicale. I viaggi temporali ci raccontano di un futuro catastrofico e silenzioso, che si contrappone ad un presente caotico che passa con superficialità sulle cose che contano veramente; si ingioiella poi in scene d’azione che, pur non essendo tante, sono puntuali e sistemate a dovere, spesso abbracciate da un passo musicale alternativo, di quelli che raccontano proiettili, calci, pugni e sangue con un pezzo cult della musica, con delle hit del passato, specie degli anni ’80 e ’90, che vibra e mette frenesia ed originalità alla scena, che pesca perfino dai Queen.
Meno bene, invece, è la sceneggiatura. Se è vero che la macchina da presa sa muoversi con audacia ed intelligenza, senza mai soffermarsi troppo su una sequenza, svelando, puntata dopo puntata, tutti i personaggi, indagandoli a dovere e raccontandoci di loro; è vero anche che il comparto dialoghi non luccica, attestandosi troppo nella normalità, senza troppi acuti e note particolarmente liete. Ottime sono invece le interpretazioni degli attori e la caratterizzazione data ad ogni personaggio, profondamente differente dall’altro. Su tutti spicca l’interpretazione di Ellen Page nei panni di Vanya; dapprima una giovane ragazza triste, senza uno scopo e con poca personalità, e poi autrice di una crescita capace di farle prendere coscienza di sé e delle proprie possibilità. La vera nemesi della serie, al netto di due killer assai divertenti, è il destino stesso che chiamerà ognuno degli eroi a fare la sua parte, con pochi colpi di scena, e nemmeno troppo eclatanti, ma con i minuti finali del decimo episodio che rimandano di certo ad una seconda stagione.
Nel complesso, abbiamo trovato The Umbrella Academy un buon lavoro, originale e completo. Qualche incoerenza e qualche errore ci sono, ma sono del tutto glissabili e spesso neanche annotabili; una serie che fa dei protagonisti, più che dei loro poteri, i cavalli di battaglia, che non ha bisogno di glorificarsi attraverso scontri funambolici, ma che sa gestire la pazienza dei propri spettatori, comprandola attraverso sottotrame intriganti e personaggi anomali, attraverso la sua delicata stranezza.