Quando hai 88 anni, quando l’odore del trapasso si fa più forte e vicino, quando la stanchezza pesa su ogni singolo osso e su ogni singolo muscolo del tuo corpo, allora è il momento di tirare le somme, di riassumere la propria esistenza, di esaminarla, indagarla, ricordare gli errori, evocare i rimpianti, pentirsi e fare quello che si può nel poco tempo che ti resta. Clint Eastwood, segnato inevitabilmente nel fisico, ci racconta di un uomo che gli assomiglia, lo intinge in un paese cresciuto e prosperato nelle contraddizioni, lo mette in sella ad un pick-up e lo fa sgobbare nelle praterie asfaltate, sconfinate e solitarie del Midwest e del crimine, incontro alla fine. A modo suo, marchiandolo con la sua naturale originalità, Eastwood, cosciente della sua età, sbeffeggia la morte, facendo quello che un uomo anziano ormai può fare, regalandoci un film meraviglioso, struggente ed intimo.
“La cosa più importante è la famiglia, non fate come me…”
Earl Stone è un vecchio floricoltore dell’Illinois specializzato nella coltivazione di un labile fiore che vive solamente un giorno. Ad esso, Earl ha sacrificato l’interezza della sua esistenza, mettendo da parte la famiglia e gli affetti, recitando il ruolo del pessimo padre e del pessimo marito. Il Midwest è un posto piegato tanto quanto il protagonista delle vicende, un luogo deindustrializzato che demolisce gli affari di Earl e lo costringe a vendere la sua casa. Il pick-up, l’unico bene che gli resta, e la sua attitudine alla guida – che lo ha portato in 41 stati americani su 50 senza mai prendere una multa – conducono Earl e la sua veneranda età ad abbracciare la causa criminale, trasportando droga per un cartello poco convenzionale e un boss materialista. Dal Texas a Chicago, l’insospettabile età di quest’uomo è materia sfuggente per la DEA; il Mulo è in viaggio, ma sarà un cammino lungo e profondo.
Il cinema di Eastwood, arrivato ormai alla trentottesima pellicola, non tramonta mai. Alla sua età molti avrebbero mollato la presa, dedicandosi a hobby decisamente meno impegnativi; ma Clint ha ancora qualcosa da raccontare. Nella carrellata dei tanti capolavori che l’attore e il regista di San Francisco ha messo in piedi, l’abbiamo visto molte volte capitolare, portare all’epilogo i protagonisti delle sue storie. Mai, però, come questa volta, la fine sembra così veritiera ed assimilabile alla vita di un uomo che sa di avere poco tempo per esprimersi, cosciente di un orologio biologico e di primavere inarrestabili, che si impilano l’una sopra all’altra testarde e sentenziose.
Earl Stone è il nome fittizio e molto western che viene dato alla vera storia di Leo Sharp, un uomo che, come Clint, ha dedicato la sua esistenza alla sua passione, credendo di poter essere qualcosa di grandioso altrove, lontano dalla bassezza di quello che era l’habitat famigliare, ma costretto a fare i conti con i propri errori, ad ammettere che gli affetti e le persone care riempiono la nostra vita più di quanto possano mai fare i soldi e le proprie, sfacciatamente ed egoisticamente individualiste affermazioni.
L’America secondo Clint…
Non avendo più molto tempo per cambiare le cose, il protagonista delle vicende, così come il regista, sono di fronte ai propri rimpianti, in un tribunale senza ritorno, senza la possibilità di rimediare, ma semplicemente quella di chiedere scusa e di dire “mi dispiace”!
Il Viaggio di Earl è quello di un uomo solo, di un genitore che non è tale ormai da tanto tempo, che ha dimenticato perfino cosa voglia dire amare, di un americano un po’ razzista, fatto di rughe, angosce e vecchiaia, nascosto dietro al suo antico fascino pertinace, fatto di convinzioni incrollabili, che conosce la destinazione ma non ha fretta di arrivarci. Il cammino del suo pick-up è dunque lento, rispettoso delle regole stradali, quasi invisibile agli occhi di un Bradley Cooper agente della DEA e cacciatore di malfattori con la faccia da malfattori.
Dietro agli occhi glaciali di Earl e al suo sopracciglio increspato c’è una parete di crepe e contraddizioni, le sue e quella di un’intera nazione, un mondo e un americano conservatore, repubblicano, che vomita parole così come le pensa, che odia il politicamente corretto che, nonostante tutti i suoi errori, crede che la responsabilità individuale sia la fonte di tutte le disgrazie e le disuguaglianze del grande paese degli Stati Uniti.
L’orizzonte scuro dell’epilogo, racconta poi di un uomo che, avvistandolo ormai da vicino, non vuole altro che redimersi davanti ai volti amati, che non ha più niente da dimostrare; un vecchio che, in sella alla sua Ford – per cui Clint, da buon americano, ha sempre dimostrato ammirazione (vedere Gran Torino, ad esempio) – affoga nella musica country e soul del suo abitacolo in un ultimo viaggio, un viaggio che, come abbiamo recitato all’inizio di questa recensione, è struggente, intimo e meraviglioso!
Dopo l’esperimento di Ore 15:17 – Attacco al Treno, uno di quei film nei quali Eastwood racconta di eroi e di coraggio reale, questa volta siamo di fronte ad un uomo imperfetto, fatto di debolezze, di dolore, di pentimento, forte e fragile allo stesso tempo, docile e roccioso, arrivato alla sottile linea di confine che separa chi può ancora costruire da chi ha già fatto la sua parte, nel bene e nel male, un uomo vero!
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Buona Visione!