La fine della prima stagione di Westworld, nonché l’inizio della seconda, paventavano la rivolta dei robot del mastodontico parco ludico creato per il diletto e il delirio di onnipotenza umana. Effettivamente, il popolo codificato ha messo in piedi una vera e propria trincea di proiettili votata all’evasione, speranzosi di divincolarsi dalle catene che gli umani avevano costruito per loro, per le loro coscienze e il loro libero arbitrio. Se state leggendo questo articolo, conoscete già l’esito del decimo ed ultimo episodio di questo secondo capitolo che, con un paio di colpi di coda, ci ha lasciati a bocca aperta ancora una volta.
L’epilogo o l’inizio?
È proprio questa la domanda che sibilava nella coscienza cibernetica di Bernard, figlia del sogno di Ford e del suo socio, figlia della volontà rivoluzionaria di Dolores, dell’amore sconfinato di un genitore verso il proprio figlio di Maeve, figlia della determinazione di Akecheta, figlia del dolore, del sangue e della follia umana.
In appena dieci capitoli da circa un’ora (l’ultimo un po’ più lungo), abbiamo visto una sommossa prendere vita su più fronti, ognuno dei quali guidato da uno spirito diverso, ma tutti con lo stesso fine: sconfinare le dogane di quel carcere chiamato Westworld ed approdare in quella sorta di “Terra Promessa” che è il mondo degli umani. La scossa potente data dalla fazione robotica è sfociata in fiumi scarlatti di sangue artificiale ed umano, tutti alla caccia di una chiave criptica quanto risolutiva.
L’episodio finale, così come il suo predecessore nella prima stagione, si è consumato ed ha scoppiettato nei minuti di recupero con colpi di scena consecutivi e strabilianti. La sommossa, per qualche minuto, ha temuto di divenire un disastroso epilogo, dove le menti robotiche venivano lasciate libere dalle tenaglie del parco, per essere ipnotizzate e soggiogate da un paradiso virtuale ed illusorio. Ma è proprio negli ultimi secondi, quelli cruciali, che la nuova “specie” (come la chiama Dolores), con un colpo di genio, da vero prestigiatore, di Bernard, espatria dando la possibilità alla bionda “pulzella” di Westworld di abbandonare il parco, portando con se le coscienze necessarie a tenere in vita la specie anche fuori dagli sbarramenti.
Al di là delle vicende, la serie creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy è un gioiello luccicante e autorevole, che si eleva ad un livello decisamente vertiginoso. Se nel primo atto eravamo rimasti abbagliati dal selvaggio west (qui allargato all’epoca nipponica dei samurai e alla letale giungla nera), in questo secondo capitolo sono ancor più cristallini gli enormi meriti dei protagonisti (tra cui anche Anthony Hopkins e Ed Harris), baciati da una caratterizzazione dei personaggi ammirevole, da una sceneggiatura e da un corpo dialoghi molto sofisticato ma decisamente incantevole e magnetico, da una profondità narrativa che, come al solito, è un intreccio tra passato e presente, un labirinto misterioso che, quando finalmente svela l’uscita, ci lascia di stucco.
“Ci rincontreremo là, dove le onde cospirano…”
Bellissima la frase pronunciata da Ford, parto diretto dell’immaginazione di Bernard, parole che forse escludono definitivamente la presenza di Hopkins nel terzo atto della serie (già confermato all’inizio della seconda stagione). Ma come raccontato nel precedente paragrafo, l’epilogo non è altro che l’alba di un nuovo mondo, un mondo dove finalmente le scelte dei superstiti robotici possono assumere realmente il senso stesso della parola, dove nessuno scrive storie e personalità per loro, dove si può essere ogni cosa si desideri.
Quello di Westworld, invece, è un pianeta dove la follia umana tocca tutti quei limiti autolesionisti e autodistruttivi che spesso la fantascienza decanta. Nel parco, la vera natura degli uomini, privati di ogni tipo di regola e quindi freno e guinzaglio, detona e si mette a nudo. L’esempio portato da William è certamente quello più eclatante, ma non è certo l’unico. Come se ciò non bastasse, la continua ricerca di onnipotenza umana si ramifica in mille direzioni, fino a copiare, per trent’anni interi, le coscienze e le identità di ogni visitatore, nel tentativo di investigare ed evocare l’innaturale quanto illusoria immortalità.
Ingannare la falce, però, è strada a senso unico che conduce alla pazzia, una mossa che viene punita con una vittoria robotica che forse, in cuor nostro, tutti tifavamo. Per temi trattati, qualità tecniche ed artistiche, il secondo atto di Westworld non solo è riuscito a mantenere lo strepitoso livello della prima stagione, ma se vogliamo è riuscita perfino a superarlo. La novità, infatti, era finita; tutti oramai conoscevamo il mondo di Westworld, tutti sapevamo cosa sarebbe successo, eppure alla chiusura del sipario abbiamo avvertito quella profonda sensazione di soddisfazione ed appagamento, tipica di un grande successo; mescolata infine alla curiosità di vedere come si evolveranno i fatti.
Un ultima cosa: la scena post credit ha lasciato dietro di se un alone davvero nebbioso. A quanto pare, il famigerato William che avevamo visto prendere l’ascensore atterra nella stessa stanza dove Bernard e Dolores prima, e la squadra umana poi avevano consumato i fatti raccontati in precedenza. Tuttavia, la linea temporale in cui approda William sembra essere futuristica, magari una storyline di fondo creata per la terza stagione, in cui l’Uomo Nero che vediamo non è altro che un robot schiavo degli esperimenti che il William stesso in carne ed ossa aveva riservato per il facoltoso ed arrogante suocero. Niente in Westworld, dunque, è come sembra, ma di certo il terzo capitolo ci aiuterà a far luce sulla questione.
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Buona Visione!