Abituati alle produzioni televisive a stelle e strisce, ci suona davvero strano vedere scritto “una serie tv danese“. Accettati ed apprezzati i prodotti francesi, specie quelli polizieschi e spy come Profiling o Le Bureau, nella maggior parte dei casi tutto quello che arriva da noi, arriva direttamente dagli Stati Uniti o dal Regno Unito. Netflix, però, pian piano, attraverso i suoi prodotti originali, ci sta insegnando che si può lavorare bene anche fuori da questi schemi topografici. Ecco allora sfornare una splendida serie tv di madre italiana come Suburra, il dilemma sociale versione brasiliana di 3%, o l’intrigante produzione tedesca di Dark. Ora, invece, è il momento di spostarci verso nord, in quella fredda Danimarca scandinava che risponde al nome di The Rain. Come è già palese e cristallino dal titolo, la serie si incentra su una pioggia molto particolare, una pioggia sicario della follia, della disperazione e degli errori umani.
Resta al coperto
I misteri della natura sono infiniti; a maggior ragione se ad imprimere oscurità agli eventi è lo zampino umano. Un virus trasportato e diffuso dalla pioggia si abbatte sulla Danimarca e sulle popolazioni scandinave in generale, creando pozze di cadaveri infinite e virali. Una famiglia, composta da papà Patrick; mamma Ellen e due figli, Simone (nome in questo caso femminile), quello maggiore; e Rasmus quello minore, si rifugiano in un bunker di proprietà dell’Apollon, la società scientifica per cui lavora Patrick. In un modo o nell’altro i due ragazzi rimangono presto da soli, costretti a vivere per sei anni confinati sotto terra, lontani da quelle gocce carnefici. Costretti a tornare in superficie, si confrontano con una realtà post-apocalittica, dove la sopravvivenza è l’unico obiettivo di chi è fin’ora scampato alla falce virulenta.
Le enormi foreste di conifere danesi fanno da sfondo ad una vicenda molto più fitta dell’impenetrabile filtro di alberi in cui invece la pioggia riesce a sgusciare ed uccidere. È da un po’ di tempo ormai che, finalmente, le capacità narrative, i paesaggi, perfino la storia e le leggende scandinave hanno cominciato ad appassionare il pubblico di tutto il mondo, vuoi quello cinematografico, quello televisivo e perfino quello videoludico. E allora ecco spuntar fuori la mitologia norrena raccontata da sempre nei fumetti Marvel di Thor (ultimamente forse un po’ troppo distorta in film come Thor: Ragnarok o Infinity War), in versione videogioco da God of War, la trasposizione cinematografica de L’Uomo di Neve targato Jo Nesbø, la mitica trilogia thriller svedese di Uomini che Odiano le Donne e tanti, tanti altri ancora. Insomma, la Scandinavia, a parte le temperature, non è solo un bel posto dove viere, ma è un luogo pieno di qualità, fascino e bellezza.
In tutto questo, The Rain, possiamo dirlo serenamente, non è certo il gioiello più luccicante. La serie originale Netflix ci è sembrata un gradino sotto (forse anche due) di più celebri prodotti nostrani come Stranger Things, Altered Carbon o Tredici (di cui attendiamo il secondo capitolo proprio questo mese). Andiamo a scoprire perché.
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Qualche sbadiglio di troppo
Il post-apocalittico di The Rain, e facciamo riferimento alla scenografia, ma anche alla caratterizzazione dei personaggi, rispecchia religiosamente quelli che sono gli standard minimi che il pubblico si attende. La desolazione espressa nei centri abitati desertici e lasciati a marcire, il carattere forgiato da tanta morte e da tanti dolori dei sopravvissuti, ma anche l’ingenuità di chi è rimasto al sicuro per sei anni, senza aver visto la catastrofe diffondersi e gongolare, rendono bene l’idea del mondo ferito e devastato che gli ideatori dello show volevano raccontare.
I problemi, purtroppo, arrivano quando si parla di sceneggiatura. Troppo spesso le sequenze sono reiterate, elasticizzate senza motivo, condite da dialoghi semplici, dal basso impatto, troppo elementari. Altre volte, invece, la regia glissa in maniera repentina su vicende, dettagli e fatti che invece avrebbero meritato un po’ più di attenzione. Va bene che siamo in un post-apocalittico, ma la troppa serietà dei personaggi, alle volte, è asfissiante.
Ciononostante, gli attori si comportano bene davanti alla telecamera; fanno il loro dovere senza esaltarsi troppo, in via abbastanza scolarizzata, ma comunque efficace. Su tutti scintilla l’esibizione della protagonista Alba August (Simone), già avvezza alle serie tv di casa, e decisamente credibile nel ruolo di una sorella protettrice, che ha promesso di tenere al sicuro il suo fratellino, ora diventato fratellone, ma solo nel fisico. Da apprezzare poi è lo sforzo sonoro che la produzione fa nel raccontare le vicende; sempre molto puntuale, azzeccato, molto americanizzato se vogliamo.
In generale, The Rain agguanta senza troppi sforzi la sufficienza, ma non riesce ad esaltare!
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Buona Visione!