In origine dovevano essere solo tre. Anzi, per dirla tutta, il primo Insidious doveva essere un episodio solitario e terrificante. Il successo però si sa, ci invita a massimizzare i profitti, a spremere ogni energia, ogni possibilità di guadagno. Jason Blum, e la sua Blumhouse, conosce bene questo tipo di concetto; ed essendosi ormai guadagnato il titolo di re del low-budget, continua a sfornare saghe infinite di prodotti su cui cuce prequel, sequel, e quanto di più bizzarro si possa concepire. Ci basti pensare, infondo, che il Signor Blum è riuscito a realizzare ben sei capitoli di Paranormal Activity, due di The Conjuring (senza contare i due spinoff di Annabelle ed altri due pronti per essere messi in tavola), tre The Purge (con il quarto in procinto di nascere), due Oiuja, ed ora quattro Insidious. L’Ultima Chiave non è quello che si può definire un capolavoro dell’horror, specie perché rappresenta l’ultimogenito di una figliata che ha ormai esaurito il fattore originalità e novità, ma riesce tuttavia a distinguersi per ambientazione e clima e farci trascorrere una serata all’insegna del soprannaturale e della paura.
Si torna a casa
Elise Rainer, la nostra adorata medium, è costretta nuovamente a mettere piede nell’Altrove, dopo aver ricevuto la chiamata di un uomo che abita proprio nella casa in cui la donna è cresciuta. Presenze minacciose e sconosciute occupano le mura di questa vecchia dimora polverosa di Five Keys, New Mexico. Elise e i suoi due fidi condottieri demonologi Specs e Tucker dovranno affrontare nuovamente faccia a faccia il male più puro.
Partiamo con una domanda: quale è il fattore vincente di questa saga? Al di là della bontà terrificante del paranormale, che da sempre strega il pubblico e lo tiene incollato allo schermo, il cuore pulsante di Insidious è, senza ombra di dubbio, la sua protagonista, Elise (Lin Shaye). Il primo sconvolgente atto della saga si era concluso con la morte di Elise, ma i produttori si resero ben presto conto che il coraggio sbandierato di aver messo al centro delle vicende una protagonista attempata in un mondo cinematografico che sembra premiare solo la giovinezza e scavare in anticipo le tombe alle carriere degli ultra 60enni, era stato invece premiato dal pubblico amante del genere.
Complice anche l’ottima interpretazione dell’attrice del Michigan, affiancata alla simpatia (a volte abusata e fin troppo banale) di una coppia di attori giovani e ben addestrati, il personaggio di Elise è divenuto quasi iconico, tanto da meritare ben tre prequel. Un’altra componente che rende questa saga un prodotto di assoluta qualità è L’Altrove (in inglese The Further), una sorta di aldilà, un purgatorio dove si annidano anime malvagie di vittime e carnefici, demoni ed esseri umani in cerca di pace. Ogni anima che abita questo mondo è poi rappresentata da attori in carne ed ossa; elemento non di poco conto, perché rende più realistico ed immediato il riconoscimento dell’antagonista da parte del pubblico.
In questo caso, ad esempio, siamo di fronte al demone Key Face, interpretato dal mastodontico attore spagnolo Javier Botet (a breve anche nei panni dello Slender Man). La Sindrome di Marfan da cui l’attore è purtroppo afflitto lo rende però un demone longilineo, agile, su cui il trucco infine contribuisce a creare una mostruosità perfetta per il genere e per il clima che si respira nel film.
E proprio di clima parliamo, quando facciamo riferimento alle tenebre che brulicano ansiose di evadere dall’Altrove, un’atmosfera questa volta baciata da un’ambientazione e una scenografia convincente e in piena sintonia con le vicende, nonché da un sonoro più che azzeccato. Oltre al male che proviene direttamente dall’aldilà, dobbiamo perfino fare i conti con l’ansia e il timore di un’America, quella del 1953, che teme il gemello sovietico, in cui ai bambini viene insegnato a ripararsi sotto ai banchi in caso di attacco nucleare (come se servisse a qualcosa), e gli adulti vivono in costante tensione. Non fosse dunque per il fattore ripetitività, una scarsa capacità di spaventare, e una battuta troppo abusata e sciocca messa in bocca a Specs e Tucker, Insidious: L’Ultima Chiave sarebbe quasi un film sorprendente.
Blumhouse risparmia e guadagna
Vogliamo dedicare un piccolo paragrafo a questa casa produttrice horror, perché per quanto si possa criticare di monetizzare all’esasperazione su prodotti ormai già consumati dal pubblico, è una scuola vera e propria di risparmio e successo.
Il low-cost, in casa Blum, è ormai un marchio di fabbrica, ma al contrario di quanto siamo portati a pensare, questo non significa necessariamente scarsa qualità, anzi… Le idee in dote a Blum e alla sua compagine hanno fruttato dei piccoli capolavori del genere, saghe epiche, nonché l’affermarsi di attori e registi fin li sconosciuti.
Oltre alle carrellate di film nominate in testa alla recensione, non vanno certo dimenticati i piccoli gioielli dello scorso anno di Scappa – Get Out e di Auguri per la tua Morte, due film capaci da soli di riavvolgere il nastro e riportarci allo stile horror anni ’90, e allo stesso tempo rimanere incredibilmente attuali. Non sempre, poi, il primo atto delle saghe di cui abbiamo già discusso sono stati i migliori: per quanto concerne Insidious, ad esempio, il primo capitolo è senza ombra di dubbio quello meglio riuscito, ma non dimentichiamo che La Notte del Giudizio: Election Year, terza parte dell’omonima saga, era stato capace di sbalordirci, perfino di migliorare il prodotto iniziale. In qualche modo, Blumhouse riesce sempre a colpire nel segno, così come aveva fatto con The Conjuring 2: Il caso Enfield e Annabelle: Creation. L’idea di fondo parte spesso da storie realmente accadute (come succede per i coniugi Warren), ma ciò che più conta è l’efficacia con cui questa casa produttrice riesce a riprodurle e riportarle dietro ad una telecamera.
Nonostante un quinto capitolo di Insidious non sia ipotizzabile né auspicabile, Blumhouse comincia davvero ad essere sinonimo di qualità, e poco importa se i budget che utilizza non siano pachidermici, quello che conta è il risultato finale.
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Buona Visione!