Le storie poco raccontate, o lasciate a prendere polvere in qualche cassetto, hanno sempre un fascino particolare ed emotivo. Simon Curtis lo sa, e quindi decide di cucire una pellicola biografica volta a raccontare le origini del celebre personaggio fiabesco di Winnie The Pooh. Vi presento Christopher Robin però non è solo questo. Anzi, perfino il titolo ci dice che la pellicola vuole prima di tutto raccontare di uno scrittore in difficoltà, un uomo in difficoltà, un padre in difficoltà; poi di suo figlio, dell’impersonalità che avverte una volta sotto la luce dei riflettori; ma vuole infondo spiegarci il significato di famiglia in quell’epoca cupa ed abissale, dove il fantasma della Prima Guerra Mondiale volteggiava sopra le teste scampate al martirio, sopra ad un mondo che faceva fatica a dimenticare l’orrore, i cari sepolti e tutto ciò che di marcio un conflitto può partorire.
La fiaba è sempre l’ombra di un dramma
A.A. Milne è uno scrittore in piena crisi. Blue, questo è il suo nomignolo, è un uomo provato dalla Prima Guerra Mondiale, conflitto a cui ha preso parte in prima persona e in cui ha visto cadere ed ha seppellito moltissimi suoi compagni. Stanco del mondo, Blue abbandona Londra e si stabilisce nella natura e nella tranquillità del Sussex insieme a sua moglie Dafne, suo figlio Christopher Robin e la bambinaia. Dafne, ancora bramosa di vita e movimento, lascia il marito per tornare in città; ed è così che Milne, per intrattenere il suo piccolo Christopher, plasma Winnie The Pooh e il Bosco dei Cento Acri.
Ancora ammaliati dalle meraviglie un po’ comiche e un po’ tenere delle avventure che la Disney ci ha sempre raccontato del nostro adorato orsetto Winnie, ci viene davvero difficile credere che tanta meraviglia e tanta bontà nascano dal dramma di un uomo e del suo bambino. Eppure, mescolando la realtà e la fantasia, Curtis ci narra proprio questa sconvolgente verità. Ogni storia, anche quella più assurda, prende vita da un fondo di verità; semplicemente perché per quanto la nostra immaginazione possa viaggiare, esplorare nuovi mondi, concepire realtà fantastiche e quant’altro, deve necessariamente prendere spunto da qualcosa che già conosce e con cui ha avuto già a che fare.
Milne non fa eccezione! Il suo Winnie the Pooh nasce dalla tortura che il suo cuore deve subire ogni giorno per via della brutalità a cui ha dovuto assistere in trincea, nasce dalla solitudine di un uomo abbandonato, in un’epoca in cui l’unità famigliare non era quella che siamo abituati a conoscere oggi. Il distacco tra genitori e figli, nelle famiglie più altolocate dell’epoca, era praticamente la norma; padri e madri che necessitavano di una bambinaia per crescere i propri figli, tanto che alle volte i bambini riconoscevano proprio nei loro badanti la figura del genitore. Ma non è solo questo il dramma che consuma Christopher.
Dopo una prima parte dedicata a Milne, le attenzioni della telecamera e della narrazione si spostano sul figlio, sul suo successo indesiderato, causato dai racconti che la penna del padre partorivano, quelle attenzioni mediatiche non richieste che porteranno Robin ad avvertire un amarissimo senso di spersonalizzazione, quel desiderio di non essere nessuno, e di preferire perfino la Guerra (questa volta la Seconda) alla sua stessa vita. Il dramma dietro alla fiaba, dove aver fiammeggiato nella figura dell’autore, riecheggia come conseguenza in quella dell’incosciente protagonista, un Christopher Robin che sembra incrociare il destino del padre solo per caso, e che vorrebbe soltanto l’annullamento interiore. Il film e la trama riescono, con un po’ di buona osservazione, ad attualizzarsi proprio in questo concetto: Robin non aveva chiesto di essere famoso, eppure la massificazione dei racconti del padre lo costringono ad esserlo; oggi invece siamo tutti a caccia di fama ed attenzioni, ricercate in quell’oceano informativo e quasi teatrale creato dai social network, dalla voglia sfrenata e patologica di comparire ed apparire.
La guerra non lascia sopravvissuti
Quelli descritti nel paragrafo precedente sono tutti i temi che Vi presento Christopher Robin riesce a trattare. Lo fa tingendo un po’ troppo le scene con dramma, enfatizzando l’emozione in maniera a tratti smoderata, attraverso un comparto sonoro che troppo spesso tiene a sottolineare le scene tristi, come se gli sguardi già amareggiati e sommessi dei protagonisti non bastassero.
Niente da dire sulla recitazione naturale e veritiera degli attori, non fosse che alle volte la sceneggiatura gli mette in bocca frasi troppo scontate e banalizzate. C’è un altro concetto però che il film, se pur in maniera secondaria, vuole toccare.
La guerra, in qualunque forma, di qualunque portata, non lascia sopravvissuti, e nemmeno chi ha portato a casa la pelle è immune da tale genocidio. Quella del soldato è una razza condannata: chi a lasciare la vita sul campo, chi a vivere nell’eterna reminescenza degli orrori e del dolore.
Milne fa parte della seconda categoria, e sembra davvero un paradosso che un uomo graffiato da ricordi agghiaccianti e mostruosi riesca a creare un mondo fiabesco e meraviglioso. Anch’egli, non sapendo dove seppellire tali atrocità, decide di tuffarsi nel pianeta fanciullesco nel tentativo di apprezzare di nuovo le cose semplici della vita, di andare avanti. La natura e la tranquillità della campagna, da sole, non bastano a colmare l’abisso di sofferenza in cui sguazza e sbraccia, specie dopo l’abbandono di Dafne. La guerra non fa sconti a nessuno, in particolare all’animo sensibile e profondo di uno scrittore, che per salvare se stesso, forse, ferisce l’innocenza pura e delicata del suo amato Christopher Robin.
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Buona Visione!