Tin Star era una delle serie più attese tra quelle che hanno preso piede nel nostro paese nel mese di settembre. Dieci episodi all’insegna di Tim Roth e del suo personaggio, lo sceriffo Jim Worth che, già dal pilot, sembrava celare impronunciabili segreti. Avevamo pensato ad un disturbo bipolare che si verificava quando Jim affogava i suoi pensieri nell’alcool, e in parte così è stato. In realtà quella di Jim non è una doppia personalità, ma una doppia identità. Jim Worth è in realtà Jack Devlin, un poliziotto sotto copertura al servizio di Sua Maestà. E se ormai era ben chiaro, già da qualche episodio, che la North Stream Oil, che si era insediata nel piccolo agglomerato di Big Little Bear, pur operando sotto traccia per i suoi sporchi affari, non fosse la responsabile della morte del figlio di Jack, ancora dovevamo capire come mai Whitey desiderasse tanto la morte dello sceriffo.
La dura vita di una spia
Immaginiamo che la prima cosa che venga spiegata agli agenti sotto copertura, per semplici questioni di sopravvivenza, sia quella di non legarsi emotivamente al loro lavoro e a chi ne prende parte. Gli indagati, e quindi anche gli ingannati, sono persone è vero, ma agli occhi di una spia devono solo essere lavoro, un ruolo da interpretare come il migliore degli attori.
Questo concetto però, sospettiamo, non sia facile da digerire, specie in casi molto particolari. Casi come quello di Simon e di sua madre, a cui Jack si avvicina nel corso di un’indagine delle sue. Forse Jack non ama quella donna, ma la storia finisce comunque con una gravidanza inattesa; forse Jack ama solo la sua vera moglie e la sua vera figlia, ma non può far a meno di affezionarsi a Simon, come se fosse una sua responsabilità.
Il lavoro sta per sfuggirgli di mano, quando, a ripristinare l’ordine, arriva il marito criminale della donna, infuriato ed imbestialito per il tradimento. Questa proprio non ci voleva, Jack Devlin è uno sbirro, “non possiamo ammazzarlo“, recita l’uomo. Ed è qui che entra in scena Frank, fratellastro della madre di Simon che convince il vichingo baffuto ad uccidere comunque Jack, e poi a fuggire lontano. Simon però, nonostante l’astio che ha maturato nei confronti di quel bugiardo dietro al distintivo, non riesce ad abbandonarlo e gli salva la vita. Jack promette solennemente di tornare a prenderli, ad occuparsi di loro; ma Jack non tornerà mai più in quell’angolo di Londra dimenticato da Dio!
Ciò che facciamo ai nostri figli da piccoli si ripercuote sulle loro vite da adulti! E’ questo quello che direbbe uno psicoterapeuta. Simon non è il figlio di Jack, ma lo è stato, in quella splendida utopia almeno per un po’. L’abbandono è un boccone molto amaro che Simon non riesce a mandar giù, così come non riesce ad accettare di aver ucciso per sbaglio Pete, il figlio di Jack.
La faida si conclude in un turbine di emozioni, tutti sperduti tra i boschi innevati delle Montagne Rocciose canadesi, macchiati dal sangue di un unico sconfitto: Simon. “Io non ti odio Jack, io ti voglio bene“. Le ultime parole di quel ragazzo, in cui tutti ormai vedevamo il riflesso di un bambino abbandonato, ci stringono il cuore, ci commuovono; ma non sono abbastanza per colmare il vuoto che urla nell’anima di Jack orfano del proprio figlio. “Ti voglio bene anch’io“, pronuncia Devlin prima di tirare impietosamente due volte il grilletto sul petto del ragazzo inerme a terra. Diciamocelo, un po’ l’abbiamo odiato per questo; di certo l’ha odiato Anna, la figlia di Jack, innamorata di Whitey/Simon, che conclude la serie puntando la pistola contro suo padre e lasciandoci con il tuono secco di un proiettile esploso e i titoli di coda a seguire!
Sullo sfondo, ma del tutto secondaria, la questione della North Stream Oil, che si conclude con la morte brutale del perfido Louis Gagnon e il ricatto di Elizabeth al consiglio dell’azienda, decisa ad ottenere una poltrona con pieni poteri decisionali in cambio del silenzio sui fatti di Big Little Bear e della sua riserva indiana.
Tiriamo le somme
All’inizio dello scorso settembre, abbiamo già ricevuto notizia che avremo una seconda stagione di Tin Star. Questo ci fa davvero molto piacere, specie perché il nostro responso sullo show ideato da Rowan Joffé è del tutto positivo.
Tin Star vive sul personaggio di Jim Worth/Jack Devlin e sulla recitazione superba e caratteristica di Tim Roth. Le differenze tra Jim e Jack non sono molte, ma di sicuro l’alcool fa del secondo un uomo spietato, cosa che il primo non ha il coraggio di essere. Molto bene anche Genevieve O’Reilly, alias Angela, la moglie di Jim. La bionda attrice irlandese ci sorprende nel difficile ruolo di una madre devastata dal dolore per la perdita di un figlio, infiammata dalla vendetta, paziente ed infermiera di un marito affogato nei guai del suo lavoro, causa di tutti i suoi dispiaceri, ma anche l’unico uomo che possa mai amare! Sul resto del cast non possiamo fare critiche, ma non ci sono particolari squilli di tromba. Buona è la caratterizzazione del personaggio di Gagnon, mentre ci aspettavamo qualcosina di più da quello della Bradshaw, donna con una coscienza da rabbonire, ma anche opportunista ed arrivista!
Bellissima è invece la fotografia. Di certo gli ipnotici paesaggi canadesi aiutano gli scenografi a rendere peculiare questa serie tv, cosa facilmente distinguibile in altre produzioni come ad esempio Fortitude, ma puntuali e cromaticamente profonde sono le riprese della telecamera. Particolare è invece il comparto sceneggiatura. Il personaggio di Jack, ad esempio, sputa superficialità e si fregia di profondità allo stesso tempo. Un protagonista di certo non facile da incarnare, e solo la maestria di un magnifico Tim Roth, forse, poteva riuscirci.
Folle, emozionante, coinvolgente, entusiasmante: tutto questo è Tin Star!
Leggi anche: Agents of S.H.I.E.L.D., ecco la premiere della quinta stagione
Lascia un commento e seguici su Facebook, Twitter e Google +. Adottaci, è facile! (senza nemmeno chiamare il numero verde :-P)
Buona Visione!