L’abisso di 47 Metri è molto più profondo di quanto si immagini. Gli squali sul grande schermo, esattamente come gli zombie e i vampiri, andranno sempre di moda, e dopo aver assistito alla guerra tra uomo (o per meglio dire donna) contro pesce di Paradise Beach la scorsa estate ed aver accolto la notizia che Jason Statham se la vedrà con uno squalo primitivo, ci siamo gettati senza troppe pretese nell’apnea ansiogena ed inquietante di 47 Metri, in cui il regista, Johannes Roberts, sembra saper bene come sguazzare nel mare dei monster movie. La pellicola in questione però, non è solo un racconto di pesci mangia uomini, ma la storia personale di due sorelle che lottano per la sopravvivenza in un clima di ansia e suspense perenne, bagnata dallo scarlatto del sangue ma anche da un’originalità narrativa davvero speciale.
Un oblio invaso dai mostri
Kate e Lisa sono due sorelle che hanno deciso di regalarsi una vacanza in Messico all’insegna del divertimento. Lisa è appena stata lasciata dal fidanzato che ha giustificato la sua scelta sostenendo che la vita della ragazza è troppo noiosa e banale, a fronte di una spericolata esistenza invece di Kate. Ecco dunque che la sorella più temeraria convince l’altra ad “un’esperienza turistica” molto particolare: entrare in una gabbia, farsi calare negli abissi ed ammirare i celebri squali bianchi sventolare la loro pinna e digrignare i denti a pochi metri di distanza. Doveva essere un’avventura eccitante, ma comunque sicura, non fosse per il fatto che il verricello cede, e dai 5 metri sotto la superficie del mare, le due sorelle sprofondano a 47, nell’oscurità di acque pronte ad inghiottirle.
Kate e Lisa non devono affrontare solo la pericolosità delle fauci degli squali, ma devono fare i conti con una serie infinita di complicazioni che una situazione come la loro purtroppo contempla. I bar dell’ossigeno a disposizione corrono veloci verso l’esaurimento, al contrario dell’ansia e della tensione che invece il regista e gli sceneggiatori sanno come far crescere con il passare dei minuti. L’oscurità umida da cui sono avvolte le due protagoniste nasconde più insidie di quello che ci si può immaginare: il senso di abbandono, la paura graffiante di non farcela, di morire in un modo davvero assurdo, i sensi di colpa per aver trascinato una persona che ami verso la morte senza saperlo, il brivido freddo dell’essere preda, di sentirsi, per una volta, colui che viene cacciato, lo spirito di sacrificio, l’amore e poi il coraggio di trasformarsi.
Eh si, perché se all’inizio Lisa è quella restia, sulla difensiva, la meno audace e spericolata, la situazione la induce e la obbliga a tirar fuori gli attributi. I ruoli, vuoi per necessità, ma anche per intuizione narrativa, si invertono, facendo di Lisa l’eroina di turno che, per il bene della sorella, dismette i vestiti della paura e dell’inoperosità, per indossare quelli più luccicanti della temerarietà e della forza. E’ proprio vero, messo all’angolo, anche un moscerino può divenire un leone.
Il paradosso della gabbia
La rete metallica nella quale le due sorelle sprofondano sui fondali marini messicani accoglie un doppio paradosso. Tutti noi, quando immaginiamo una gabbia, pensiamo anche ad un confinamento, un ghetto da cui evadere per ottenere la libertà. In questo caso, le sbarre d’acciaio sono simbolo di protezione dal pericolo squamoso che gira minaccioso intorno alle vittime, come ad aspettare che il pranzo sia servito. Se questo paradosso però è scontato e prevedibile, non lo è certamente il secondo. La gabbia in cui Lisa si rifugia è la stessa gabbia mentale che le impedisce di mostrare le unghie, di far detonare quanto di roccioso e forte custodisce nel suo io più profondo. Ed ecco quindi che Lisa è costretta ad abbandonare quelle catene sicure, a mettersi in gioco, a nuotare nell’oscurità alla ricerca della salvezza.
La trappola mortale in cui le due sorelle sono cadute le invita a dirsi la verità, a confidare i segreti più reconditi e occulti che un uomo custodisce gelosamente. Attenzione però a non mollare, a rimanere in vita, ad aguzzare l’ingegno e soprattutto, attenzione a quella meschina della malattia da decompressione.
Il film dunque non è solo ben edificato, non ha solo una cucitura horror degna del genere, non è solo ansia, paura, tensione, ma è anche qualcosa di molto più profondo dei 47 metri che attanagliano le due protagoniste. A proposito del cast: il film non ha bisogno di tanti attori, ma ha sicuramente necessità di ottenere dalle due interpreti una recitazione con i fiocchi. Mandy Moore e Claire Holt non si fanno pregare ed è anche grazie alla veridicità della loro esibizione che il film trova le sue fortune.
Dobbiamo però necessariamente fare i complimenti agli sceneggiatori che, a quanto pare, rispettano ogni cliché del genere e portano in apnea non solo i protagonisti, ma anche lo spettatore stesso. Un’ora e mezza tutta d’un fiato che, ai titoli di coda, vi obbligherà a spalancare la bocca e ad inspirare con forza. I complimenti vanno fatti anche al comparto musicale e sonoro che sa come accompagnare le immagini con grande puntualità e precisione chirurgica, facendo danzare le vicende su note mai stonate e sempre appropriate.
47 Metri è un film che, nonostante una sinossi in apparenza scontata, sa sorprendere e coinvolgere. Come avete potuto vedere, di squali abbiamo solo accennato; non perché non si esibiscano a dovere, anzi la loro presenza è sempre temuta e ben sottolineata, ma il film riesce ad andare oltre il semplice mostro dai denti aguzzi, mettendo in scena un mix di paure molto reale e tangibile.
Leggi anche: Pirati dei Caraibi – La Vendetta di Salazar, Recensione
Seguici su Facebook, Twitter e Google +. Adottaci, è facile! (senza nemmeno chiamare il numero verde :-P)
Buona Visione!