La presenza di Will Smith in un film drammatico e professore di vita quotidiana, normalmente, è sinonimo di qualità. Ma quando a dirigere le danze manca il Muccino di turno, il risultato purtroppo non è lo stesso. Collateral Beauty affronta il tema impervio del lutto, reso ancor più faticoso e impraticabile dal fatto che si riferisce alla scomparsa di una bambina di soli sei anni. Come fa un padre ad accettare una cosa simile? Come fa a continuare a vivere, a trascinarsi in avanti? Un vuoto troppo grande da colmare, una ferita troppo profonda da ricucire, che rischia di arenare anche la vita del genitore stesso, chiuderla in anticipo nonostante il cuore batta ancora esclusivamente in via automatica ed involontaria.
Howard era un pubblicitario di successo, un uomo baciato dalla fortuna: un ottimo lavoro, una buona posizione sociale, una splendida New York a fare da cornice e soprattutto la sua meravigliosa figlia. Quando quest’ultima viene a mancare in un’età così ingiusta, Howard cade in una depressione profonda ed estremizzata. La sua vita non ha più senso e, nell’inutilità delle sue giornate, delle sue passeggiate e delle visite ai gruppi di sostegno, l’uomo scrive tre lettere rivolte al Tempo, all’Amore e alla Morte. I suoi migliori amici, decidono quindi di assoldare tre attori di teatro per impersonare i tre sfuggenti e platonici interlocutori di Howard, nel tentativo di ricordargli che la sua vita non è ancora finita.
Possiamo considerare tranquillamente questa pellicola un Xmas Movie, anche se in Italia, purtroppo, è arrivato con qualche giorno di ritardo. L’accostamento ai racconti del “Canto di Natale” Dickensiano è palese, ma invece di insegnare la bontà allo Scrooge di turno, i tre attori pronunciano verità schiette e a tratti crudeli. L’intento del regista, David Frankel (che ricorderemo per aver messo in piedi Il Diavolo Veste Prada) è proprio questo: mettere in vetrina la crudezza e il devasto della vita vera, la profondità della sofferenza e la potenza sconfinata dell’amicizia.
I problemi del film infatti, non si trovano nelle sue intenzioni e nei suoi messaggi, bensì nella cucitura generale di un vestito troppo stretto per un cast così abbondante ed importante. In soli 97 minuti risulta quasi impossibile dare spazio a tutti i protagonisti della vicenda: solo quattro personaggi su otto vengono sviluppati a dovere e, da questa ristretta lista d’elite, rimangono fuori nomi roboanti come Kate Winslet e Edward Norton, lasciati all’ombra del loro smisurato talento. Frankel non si fa problemi a mettere da parte perfino il catatonico protagonista numero uno, quello Smith che accecava con la sua semplice presenza ed interpretazioni in pellicole simili come La Ricerca della Felicità e Sette Anime.
L’unico personaggio ad emergere è quello di Helen Mirren, che tuttavia appare spesso fuori luogo, con la sua ironia immersa in una salsa drammatica. E’ questo l’altro problemone del film. Alle volte si ha la sgradevole sensazione di avere due categorie di film diverse che tentano di legarsi ad ogni costo, ma con poco successo. La commedia, onestamente, ha poco a che fare con il melodramma; a maggior ragione quando quest’ultimo è così corrosivo e struggente. I due film si incontrano solo in maniera illusoria, del tutto forzata; altamente improbabile l’abbraccio delle sequenze con Will Smith e Naomie Harris in cui asciugare le lacrime diventa un lavoro; e quello della piccola compagnia d’attori off Broadway impegnati a misurare il loro talento sul palcoscenico della vita vera.
L’impalcatura del film è dunque interessante ed originale anche per merito di una sceneggiatura che vive di dialoghi diretti, con poche mezze misure, forti e decisi; ma allo stesso tempo i materiali utilizzati sono troppi e troppo mischiati. Alle volte per intenderci, sembra di giocare a briscola con le carte da ramino.
Se dal punto di vista tecnico, dunque, il film risulta inciampare nelle stesse buche da lui creato, bisogna anche dar merito alla morale che vuole catechizzare. Come ormai avrete notato, noi di blogames, siamo attenti osservatori delle missive e dei dispacci che, al netto delle vicende, un’opera vuole spedire al suo pubblico. Collateral Beauty è un assennato insegnante di vita e di sofferenza. Con le sue immagini e i suoi personaggi vuole semplicemente bocciare l’individualismo americano, che risplende sia nelle gioie che nei dolori. Al mondo esistono anche gli altri, le persone care, quelle che si stringono ancor più a noi nei momenti difficili e bui. Alle volte, da soli farcela diventa un’impresa impossibile ed infondo è proprio questo magari il destino delle nostre esistenze, il fine più grande: percorrere il viaggio insieme a qualcuno, nel bene e nel male, nella gioia e nel dolore; perché queste parole non sono solo una recita pirandelliana delle maschere del marito e della moglie perfetti davanti ad un altare, bensì un impegno concreto, nonché la fortuna di affrontare la vita insieme a qualcuno. Inoltre non bisogna pronunciare formule con gli amici, perché l’amicizia, quella vera, è del tutto gratuita!
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Buona Visione!